Il dato si evidenza dal "Rapporto
Italia 2015" dell'Eurispes, presentato oggi: la media nazionale è del 17%,
contro quella europea dell’11,9%. Solo in Spagna, Portogallo, Malta e Romania
la quantità di giovani che lascia prima i banchi di scuola è maggiore della
nostra. Tra i Paesi che hanno meno alunni “dispersi” figurano, quasi
incredibilmente, la Croazia (3,7%), la Slovenia (3,9%) e la Repubblica Ceca
(5,4%).
Marcello Pacifico (Anief-Confedir):
il Governo deve puntare forte sugli stage in azienda, dovremmo imparare dalla
Germania. Oltre che sul reintegro di tempo scuola e organici pre-riforma
Gelmini. Ricordiamoci che un giovane che lascia la scuola presto quasi sempre
diventa un Neet: ne abbiamo già 700mila tra i 15 ed i 25 anni.
In Italia gli
"abbandoni" scolastici rimangono tra i più altri del vecchio
Continente: secondo il "Rapporto Italia 2015" dell'Eurispes,
presentato oggi, i numeri di alunni che lasciano la scuola prima dei 16 anni
non sono "consoni a uno Stato avanzato". La media nazionale del
fenomeno rimane sopra il livello di guardia: il 17%, contro la media europea
che si attesta a quota 11,9%. Solo in Spagna, Portogallo, Malta e Romania la
quantità di giovani che lascia prematuramente i banchi di scuola è maggiore
della nostra. Per loro, come per l’Italia, l’obiettivo indicato da Bruxelles,
il raggiungimento del 10% massimo entro il 2020, rimane quindi impossibile da centrare,
almeno nel breve periodo.
Per comprendere
la gravità di questa situazione stagnante, occorre ricordare che tra i Paesi
che hanno meno alunni “dispersi” figurano la Croazia (3,7%), la Slovenia (3,9%)
e la Repubblica Ceca (5,4%): tutte realtà, sulla “carta” meno floride
dell’Italia, dove evidentemente il sistema scolastico e organizzativo è
organizzato in modo tale da motivare adeguatamente il corpo studentesco.
“A far
precipitare la situazione italiana – ricorda Marcello Pacifico, presidente
Anief e segretario organizzativo Confedir – è stata la politica al risparmio
adottata per la scuola negli ultimi sei anni. Ad iniziare dalla riduzione di un
sesto del tempo scuola: cancellando centinaia di ore di offerta formativa
l’anno abbiamo fatto precipitare la nostra quantità formativa tra le più basse
dell’area Ocse”.
Con la Legge
133/08, più di un sesto dell’orario scolastico, oggi l’Italia detiene il triste
primato negativo di 4.455 ore studio complessive nell’istruzione primaria,
rispetto alla media di 4.717 dell’area Ocse: non solo, alle ex elementari è
subentrato anche il maestro “prevalente” che svolge 22 ore, con il resto
dell’orario assegnato anche ad altri 4-5 colleghi. Come quello d’inglese, che
però non è più specializzato. Il modello formativo ha quindi perso in qualità,
precipitata, ma anche in identità. E non molto diversamente è andata per la
scuola superiore di primo grado, dove oggi i nostri ragazzi passano sui banchi
2.970 ore l’anno, contro le 3.034 dei Paesi Ocse.
“Parallelamente,
abbiamo assistito alla sparizione di 3.600 scuole e 200mila posti tra docenti e
Ata, oltre che ingenti risorse sottratti agli istituti e al personale, il cui
contratto è bloccato da cinque anni e rischia seriamente di rimane tale per
quasi altrettanti. A fronte di questi tagli – continua Pacifico – non dobbiamo
meravigliarci se poi perdiamo per strada il 17% degli alunni. E nemmeno se alle
superiori spariscono 2 milioni e 900mila giovani, come è accaduto negli ultimi
tre lustri. L’aspetto più grave è che questi ragazzi sono quasi sempre
destinati ad allargare il numero dei Neet, l’esercito sempre più ampio di
giovani che non studia e non lavora. E che troppo spesso va ad allargare le
fila della criminalità organizzata”.
“Riattivare il
numero di ore del 1998 sarebbe il vero toccasana – dice ancora il sindacalista
Anief-Confedir – perché permetterebbe nello stesso tempo di ripristinare gli
organici che avevamo fino a sei anni fa. Comportando, in tal modo, la creazione
delle cattedre utili ad assumere non solo i 150mila docenti precari previsti
dalla Buona Scuola attraverso sempre i fondi stanziati con i commi 3 e 4 della
Legge di Stabilità 2015, ma anche le tante decine di migliaia di precari
abilitati, oggi fuori delle GaE, che lo Stato continua ad utilizzare per le
supplenze salvo poi considerarli ‘invisibili’ quando si tratta di assumerli”.
Anief torna ad
appellarsi alle istituzioni, quindi, perché intraprendano una volta per tutte
una seria politica di rilancio della scuola e di contrasto agli abbandoni. La
prima modifica da attuare è portare l’obbligo formativo a 18 anni, come tentò
nel 1999 il Ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Parallelamente, servono
fondi ulteriori, nazionali e europei, finalizzati a migliorare l’orientamento
scolastico dei nostri alunni alle prese con la scelta del corso superiore. Come
occorre mettersi in testa di allargare le quote di organico, soprattutto di
docenti, in quelle aree del Paese dove la percentuale di alunni dispersi è
maggiore, ad iniziare dalle Isole maggiori dove alle superiori vi sono
province, su tutte Caltanissetta e Palermo, con punte di abbandoni che superano
il 40%.
Ha fatto bene e
deve insistere il Governo, invece, a fornire nuovi finanziamenti alle attività
di alternanza scuola lavoro: un settore che negli ultimi anni, sconfessando i
tanti annunci di rilancio, si è progressivamente sempre più “sgonfiato”, con i
fondi per gli stage aziendali ormai ridotti del 97% rispetto a quelli
inviati dal Miur-Mef appena 15 anni fa. Dai 345 milioni di euro l’anni
stanziati nel 1999 per gli stage aziendali, si è passati agli 11 milioni di
euro dell’anno scolastico in corso. Procedendo nel verso opposto di altri
Paesi, come la Germania, dove anche in tempo di recessione si è continuato ad
investire per le attività di formazione in azienda.
“Se si vuole
pensare di ridurre l’altissima percentuale di alunni che lasciano la scuola
prima del tempo, quelli che non arrivano alla maturità e i 700mila Neet tra i
15 ed i 25 anni – conclude Pacifico – bisogna invece puntare forte sui tirocini
aziendali, soprattutto negli istituti tecnici e professionali, dove gli
abbandoni dei banchi sono hanno raggiunto livelli record. Non degni di un Paese
moderno”.
Per approfondimenti:
30 gennaio 2015