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lunedì 5 ottobre 2015

SCUOLA – Oggi la giornata mondiale degli insegnanti: in Italia chi dice docente dice donna, alla materna solo 1 uomo ogni 153 colleghe



In assoluto, le donne coprono l’81 per cento delle cattedre; alle superiori sono il 65 per cento; alla primaria diventano il 96%; nella scuola dell’infanzia il 99,3 per cento. All’estero il divario c’è ma non di queste proporzioni. I motivi sono da ricercare nella bassa considerazione sociale della professione, negli stipendi da fame e nel lungo precariato. Che con la Buona Scuola è rimasto tale, perché quest’anno sono state cenferite ancora 100mila supplenze annuali. Con l’aggravante che si aggiunto il nomadismo, con 10mila precari assunti a centinaia di chilometri da casa, costretti ad abbandonare genitori, coniugi e figli, senza conoscerne i motivi.

Marcello Pacifico (presidente Anief): se si volesse realizzare un profilo del docente italiano, questo non potrebbe che essere di una donna stanca dai capelli ingrigiti dal tempo. E andrà sempre peggio: perché nel 2018 la pensione di vecchiaia arriverà alle soglie dei 68 anni, con l’assegno di quiescenza destinato a trasformarsi in una pensione poco più che sociale.  Ma a chi ci governa non importa che insegnare è un mestiere logorante e che in altri Paesi, come la Germania, si può andare in pensione con 24 anni di servizio.

Nel giorno della giornata mondiale degli insegnanti, istituita dall'Unesco, i riflettori si soffermano sulle donne. Perchè gli ultimi dati nazionali ci dicono che, conteggiando tutti i corsi di studio, le cattedre si tingono di rosa nell’81 per cento dei casi: su 751.563 insegnanti della scuola pubblica italiana, circa 610mila sono donne. E all’estero non c’è questa sproporzione, visto che in Spagna le docenti si fermano al 63% e negli Stati Uniti al 74%. In Europa solo un Paese, l’Ungheria, conta una presenza maggiore di sesso femminile (82,5%).

Se poi ci si ferma al primo ciclo, entriamo nella sfera del dominio assoluto: alla primaria le donne-maestre italiane coprono il 96% dei posti (in Spagna il 75%, nel Regno Unito l’81%, in Francia l’82%), lasciando ai colleghi di sesso maschile appena 8.193 cattedre su 224.124. Nelle scuole dell’infanzia, dove nel 99,3 per cento il corpo insegnante è donna, gli uomini diventano una vera rarità: 590 su oltre 93mila. In pratica abbia un maestro maschio ogni 153 colleghe si sesso femminile. È vero che alle superiori il predominio delle docenti scende al 65%, ma è tutto dire che in Germania le donne di ruolo impegnate nella scuola secondaria di secondo grado sono appena il 46,2%.

I motivi di questo fenomeno sono certamente culturali, ad iniziare dalla scarsa considerazione sociale, ma anche da legare ai magri stipendi. Che con il taglio del primo scatto stipendiale, introdotto nel 2011 per salvare le assunzioni, rimane oggi lo stesso per un decennio. E pure dopo le cose non vanno meglio, perché in Italia “si parte da 1.200 euro al mese e si arriva a 1.700 (1.900 alle superiori), all’apice della carriera, di solito dopo 35-40 anni di servizio. Per trovare retribuzioni più alte basta guardare a Lussemburgo, Danimarca, Austria. O in Germania, Spagna, Portogallo e Turchia, dove sono addirittura al di sopra del Pil pro capite”, ha scritto in questi giorni Il Corriere della Sera. Basta dire che i docenti spagnoli percepiscono fra i 32mila e i 45mila euro lordi l'anno; i tedeschi tra i 46mila e i 64mila; gli italiani si fermano tra i 24mila e i 38mila euro.

Sulla bilancia, però, va anche messo il fatto che un docente arriva, mediamente, all’immissione in ruolo non prima dei 40 anni, non di rado anche dei 50. Arrivano al posto fisso, praticamente sfiniti. A causa dei 200mila tagli di posti degli ultimi anni, il loro reclutamento è diventato sempre più complicato: i docenti precari sono stati tagliati del 25%, mentre quelli di ruolo sono scesi del 6%. Così il tempo di attesa che porta alla stabilizzazione si è allungato. Con la Buona Scuola che ha concluso l’opera, visto che almeno 10mila precari sono stati assunti a centinaia di chilometri da casa, costretti ad abbandonare a se stessi genitori, coniugi e figli, senza conoscerne il motivo: così, al precariato si è aggiunto il nomadismo professionale.

“Il ministro Giannini si è tanto raccomandato di non usare per loro il termine ‘deportati’ – ricorda Marcello Pacifico, presidente Anief – ma di fatto questo è avvenuto. E il trasferimento coatto delle fasi B e C della riforma, si poteva evitare: perché le stabilizzazioni quasi sempre si potevano realizzare nelle province dei precari, perché il Miur ancora oggi continua a tenere secretati decine di migliaia di posti: regredendoli al 30 giugno, li ha tenuti inutilizzabili per le stabilizzazioni. Basti guardare al sostegno, dove ci sono più di 40mila cattedre libere, ma le immissioni in ruolo si sono fermate a poco più di 10mila. Continuando, anche quest’anno, a tenere sotto scacco, come precari annuali, oltre 100mila docenti. Negando loro, ancora una volta, gli stipendi estivi. Quindi – sottolinea Pacifico - se si volesse realizzare un profilo del docente italiano, questo non potrebbe che essere di una donna dai capelli ingrigiti da tempo”.

Di recente, il rapporto annuale Eurydice, ha evidenziato che l’8,2% dei docenti francesi ha meno di 30 anni, mentre nel Belpaese sono appena lo 0,4%. Di contro, se in Spagna il 29,3% dei docenti ha oltre di 50 anni, superano il 60% (nel 2009 erano il 52%). E con la riforma Monti-Fornero, che ha colpito in modo maggiore guarda coso proprio le donne, la pensione di vecchiaia nel 2018 sarà equiparata, con l’uscita dal lavoro indistintamente consentito solo alle soglie dei 68 anni. Col risultato che, oggi più che mai, i nostri docenti si invecchiano in cattedra.

“E poco importa – continua il presidente Anief - se insegnare è un mestiere altamente logorante e in altri Paesi, come la Germania, si può andare in pensione con 24 anni di servizio”. Eppure, nel nostro Paese la correlazione tra stress da insegnamento e patologie è stata confermata dallo studio decennale ‘Getsemani Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti, da cui è emerso che la categoria degli insegnanti è quella che di più conduce verso patologie psichiatriche e inabilità al lavoro: dallo studio è emerso che ad essere stressati per il lavoro logorante sono, a vario titolo, il 73 per cento dei docenti”.

Se poi ci si sofferma sull’entità dell’assegno di quiescenza di chi opera in Italia, c’è da mettersi le mani nei capelli: perché già oggi, già oggi “per più di quattro pensionati su dieci l'assegno non arriva neppure a mille euro al mese”. Con oltre la metà di pensionati (il 52%) che devono tenere stretta la cinghia rappresentato proprio da donne. Figuriamoci cosa potrà accadere alle nuove generazioni di docenti, per le quali la pensione si baserà totalmente sul sistema contributivo.

A far diventare il quadro degli insegnanti italiani ancora più cupo è la recente proiezione realizzata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla spesa che lo Stato Italiano sosterrà per l’Istruzione pubblica in rapporto al PIL: è destinata a decrescere: nel 2035, infatti, assisteremo ad una perdita di quasi un punto percentuale (dal 4% al 3,2%). Per poi assestarsi su quella stima per i successivi decenni. Facendo dormire sonni tranquilli ai governanti a cui preme mantenere la salvaguardia dei conti pubblici. E non, di certo, ad elevare la cultura dei suoi cittadini.


Per approfondimenti:


I 66mila precari che chiedono una cattedra (Corriere della Sera del 14 agosto 2015)
















L’algoritmo-lotteria che sceglie i prof (Corriere della Sera del 4 settembre 2015)


Sono pochi e molto richiesti: perché l’Italia non è un paese per maestri (Il Tempo delle donne - Corriere della Sera del 1° ottobre 2015)



5 ottobre 2015                                                                                                          

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