Oltre la metà dei prof italiani ha più
di 50 anni. La situazione è peggiorata con la riforma Fornero: nel 2014 fecero
domanda appena 10mila insegnanti su oltre 700mila, quest’anno hanno espresso la
volontà di lasciare il servizio in 17mila. Un +70% dovuto a diversi motivi: la
“distanza” rispetto ai nativi digitali, l’uso crescente delle nuove tecnologie,
lo stipendio sempre più sotto l’inflazione, la scarsa considerazione sociale. Ma
soprattutto, con la Legge di Stabilità 2015, sono venute meno le penalizzazioni
(sui mille euro l’anno) del pre-pensionamento per chi ha meno di 62 anni.
Peccato che lo stop varrà solo due anni.
Marcello Pacifico (Anief-Confedir): dopo
il record di insegnanti canuti, migliaia di Quota 96 abbandonati al loro destino, l’innalzamento dei
requisiti per le crescenti aspettative di vita, ci mancava l’adozione dello
stop alle decurtazioni limitata ad un biennio: se
si vuole ringiovanire il corpo insegnante italiano, quella norma nella Legge di
Stabilità che elimina le penalizzazioni va confermata e resa retroattiva dal
2012. Non dimentichiamoci che in Germania si può andare in pensione dopo 27
anni di contributi versati.
Ad una
manciata di giorni dalla scadenza per la presentazione della domanda di accesso
alla pensione, da maturare dal 1° settembre 2015, prende corpo l’ipotesi della fuga
dall’insegnamento: approfittando della riduzione delle penalizzazioni
previste per il pre-pensionamento, introdotta dalla Legge di Stabilità proprio
per coloro che fanno domanda a partire da quest’anno, risultano 17mila i docenti che hanno chiesto di lasciare il
servizio, il 70 per cento in più rispetto all’anno scorso. È un dato sicuramente
positivo, se si pensa che in Italia, scrive
oggi il Corriere della Sera, ci sono “i professori più vecchi d’Europa: più
della metà sono over 50” e “quelli sopra la sessantina sono addirittura l’11%
alle elementari, il 13% alle superiori e il 15% alle medie. Tanto per capirci:
6 punti sopra la media dei Paesi Ocse”. Mentre siamo il Paese europeo con meno
docenti under 40: appena il 10,3%.
A favorire l’alto numero
di domande per accedere alla pensione è stato l’emendamento approvato con la Legge 190 del 23 dicembre
scorso, presentato dalla deputata del Pd Luisa Gnecchi, che ha modificato una parte della riforma previdenziale Monti-Fornero del 2011:
permettendo alle lavoratrici con meno di 62 anni di età, in possesso di 41 anni
e mezzo di contributi, i lavoratori 42 anni e mezzo (periodi di effettivo
lavoro, comprendenti però astensioni come maternità e obblighi di leva), di non
incappare più nelle decurtazioni. Che erano tutt’altro che figurative.
“La legge Fornero – ha
calcolato la
stampa nazionale - ha previsto delle penalizzazioni per chi chiede la
pensione anticipata prima di aver raggiunto una determinata soglia anagrafica.
In particolare, l'assegno pensionistico lordo si riduce dell'1% per ogni anno
che precede il compimento dei 62 anni. La penalizzazione sale addirittura al
2%, per ogni anno che precede invece i 60 anni all'anagrafe. Esempio: se un
lavoratore ha accumulato 42 anni e mezzo di carriera ma ha “appena” 58 anni di
età, può attualmente mettersi a riposo ma subisce un taglio dell'assegno di ben
il 6%. Su una pensione lorda maturata di 1.500 euro al mese (circa 1.200 euro
netti) questo sistema comporta in linea di massima una decurtazione di 90 euro
mensili lordi (e di 60 euro netti)”.
Il problema è che
l’emendamento Gnecchi non ha cancellato la penalizzazione introdotta con la
Legge Fornero, ma ha solo permesso di “bypassarne” gli effetti tra il 2015 e il
2017. Per tutti coloro che hanno lasciato il servizio per la pensione a partire
dal 1° gennaio 2012, fino al 31 dicembre 2014, e poi quelli che lo lasceranno a
partire dal 2018, la penalizzazione continuerà a permanere. Anief ritiene
questa norma non applicabile ad un periodo limitato: pertanto preannuncia di
avere incaricato i propri legali di esaminare le modalità per impugnare questa
norma discriminante, che ha già penalizzato doversi migliaia di lavoratori,
sottraendo ad ognuno oltre mille euro lordi l’anno.
Si tratta di una cifra
notevole, anche perché il collocamento in pensione in Italia non è di certo un
viatico verso il benessere. Negli altri Paesi moderni, l’assegno di quiescenza
è decisamente più alto, perché di determina sulla base dei contributi versati,
senza decurtazione. In Francia, ad esempio, l’età minima di pensionamento pur
essendo stata innalzata, prevede comunque di lasciare la scuola a 62 anni. E in
Polonia e a Cipro l’età minima per lasciare il lavoro in cambio di una pensione
piena al completamento del numero di anni di servizio svolti, sempre senza
decurtazione, è fissata a 55 anni. Poi
ci sono diversi altri, tra cui Belgio, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna,
Lussemburgo (pag. 93 dell’ultimo Rapporto
Eurydice della Commissione europea ‘Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di
istituto in Europa’), dove, allo stesso modo, è possibile ottenere “una pensione piena al
completamento del numero di anni di servizio richiesti”.
Mentre in Italia l’unico
criterio che è prevalso è stato ancora una volta quello della salvaguardia dei
conti pubblici. Basta ricordare che dal primo gennaio 2016 verrà posticipata di
ulteriori quattro mesi l’età e i requisiti per accedere alla pensione.
L’adeguamento per accedere all’assegno di quiescenza è stato realizzato
dall’Istat sulla base delle nuove speranza di vita, come previsto da una norma
approvata dall’ultimo Governo Berlusconi che prevedeva il ritocco dei requisiti
con cadenza triennale: nel 2013 il salto in avanti fu di tre mesi, ora se ne
farà uno ancora più lungo. Il concetto è semplice: poiché si vive più a lungo
(le donne oltre gli 85 anni) occorre andare in pensione più tardi. Ma qualora
le aspettative crescenti non dovessero realizzarsi, si è anche provveduto ad
introdurre una salvaguardia, sempre a tutela dello Stato e non certo dei
lavoratori: dal 2022, infatti, la Legge 224/2011 prevede che comunque l’età di
pensionamento non potrà essere inferiore ai 67 anni per tutti.
Marcello Pacifico,
presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, ricorda che in Italia la
normativa sulle pensioni sta diventando insostenibile: “solo nell’ultimo quinquennio, le riforme sulla quiescenza hanno
allungato di dieci anni l'età pensionabile. Con effetti diretti su alcuni
comparti, come quello della scuola. Dove deteniamo il record mondiale di età
dei docenti: più della metà ha più di 50 anni. E a nessuno di loro si concede
la possibilità, nemmeno a ridosso della pensione, di diventare tutor dei
giovani colleghi. E che dire dei migliaia Quota 96 ormai abbandonati al loro
destino, dopo essere arrivati ad un passo dalla soluzione dell’errore attuato
nei loro confronti con la legge Fornero?”.
“Ora arriva pure la beffa delle decurtazioni a tempo. Ma
noi non ci stiamo: se si vuole ringiovanire il
corpo insegnante italiano la norma che elimina le penalizzazioni va confermata
e resa retroattiva dal 2012. Non dimentichiamoci che in Germania si può andare
in pensione dopo 27 anni di contributi versati”, conclude Pacifico.
Vinti
dall’insoddisfazione per il lavoro, la sempre minore considerazione sociale e
timore di ritrovarsi a combattere con nuove generazione e difficoltà crescenti,
dietra cattedra fino a quell’età, tanti docenti hanno scelto la via più logica:
quella di andarsene. Secondo Repubblica.it sono tanti i motivi dell’esodo: “turn-over fisiologico, ricerca di una vita più a misura
d'uomo o ritirata da una scuola ormai troppo complessa? Forse tutte e tre le
cose”. L’ipotesi che giustifica un incremento così sostanzioso di domande è
che, ormai, l’insegnamento rappresenta un lavoro sempre più difficile (da
realizzare con nativi digitali), “complicato dall'età che avanza e dalle
tecnologie che hanno invaso
prepotentemente le scuole italiane. Con una retribuzione che ha perso potere di
acquisto negli ultimi cinque anni e una considerazione sociale ai livelli più
bassi che la categoria ricordi. E per molti, questo basta per ammainare le vele
e sperare in un dopo migliore”.
Per approfondimenti:
Scheda di approfondimento ANIEF (a cura della segreteria
nazionale).
Pensioni: cosa cambia.
Nuove regole per l’accesso alla
pensione previste dalla Legge 214/2011.
Per
conseguire la pensione di anzianità e la pensione anticipata i nuovi requisiti dal 1° gennaio 2015 al
31 dicembre 2015 sono i seguenti:
Pensione di vecchiaia per uomini e donne con almeno 20
anni di contributi
66 anni e 3 mesi entro il 31 dicembre 2015
Pensione anticipata:
per le donne, 41 anni e
6 mesi di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2015;
per gli uomini, 42 anni e
6 mesi di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2015.
Il Decreto Ministeriale 886
del 1 dicembre 2014 ha determinato al 17 Gennaio 2015 il termine
ultimo per la presentazione delle domande di dimissioni volontarie dal servizio
ai fini del pensionamento per il personale della scuola
(docenti/educatori e ATA). Per i dirigenti scolastici il termine per la
presentazione delle istanze è il prossimo 28 febbraio.
Con la Legge 23.12.2014 n. 190,
G.U. 29.12.2014, vengono cancellate le penalizzazioni per chi va in pensione
anticipata entro il 2017 con meno di 62 anni di età.
Attraverso l’emendamento alla Legge di Stabilità 2015, le
penalizzazioni non vengono applicate sui trattamenti pensionistici di coloro i
quali maturano i requisiti contributivi per la pensione anticipata entro il 31
dicembre 2017. Di conseguenza, anche nel caso in cui non si raggiunga il
requisito anagrafico precedentemente fissato i 62 anni di età, si potrà
accedere, fino al 31 dicembre 2017 alla pensione anticipata senza alcuna
decurtazione e penalizzazione.
E’ di fondamentale importanza precisare che l’esclusione
della penalizzazione può ritenersi valida esclusivamente nel caso in cui i 42
anni e 6 mesi di contributi versati derivino da peridi di contribuzioni
riconducibili a prestazioni effettive di lavoro, ritenendo utili
all’elaborazione del calcolo i periodi di astensione dal lavoro quali
maternità, obblighi di leva.
I periodi di
astensione dal lavoro che non sono computabili ai fini del calcolo della
penalizzazione sono riconducibili a contribuzione relativa a CGI
ordinaria, congedi parentali, congedi per donazione di sangue ed emocomponenti,
malattia, maternità obbligatoria, servizio militare, contributi versati nella
gestione separata, contributi versati come artigiani, commercianti e
coltivatori diretti, contributi versati come lavoratori dipendenti, ferie,
riscatto di periodi di lavoro all’estero.
Le astensioni dal lavoro che
invece prevedono la penalità sono quelle che riguardano la CGI straordinaria,
la mobilità, periodi in cui si percepisce assegno di invalidità, contribuzione
figurativa per persecuzione politica o razziale, Tbc, vittime del terrorismo,
riposi giornalieri per allattamento, congedi matrimoniali, riscatto contratti
part time, riscatto laurea, periodi di inattività o di lavoro discontinuo,
riscatto di periodi senza obbligo contributivo, riscatto di periodi di studio
per inserimento lavoro, contributi volontari nella gestione separata,
congedo biennale retribuito per assistere portatori di handicap grave per
disabilità e tutti gli altri periodi di contribuzione figurativa.
Questi i requisiti
necessari per il diritto al pensionamento
dal 1° settembre 2015.
Requisiti posseduti al 31
dicembre 2011 ante Legge 214/11 (Fornero)
Vecchiaia
65 anni di età anagrafica –
requisito per uomini e donne
61 anni di età anagrafica –
requisito di vecchiaia facoltativo esclusivamente per le donne
Anzianità
40 anni di contribuzione –
requisito della massima anzianità contributiva
Quota
60 anni di età e 36 anni di
contribuzione – quota 96
61 anni di età e 35 anni di
contribuzione – quota 96
Per raggiungere la “quota 96” si
possono sommare ulteriori frazioni di età e contribuzione (esempio: 60 anni e 4
mesi di età anagrafica con 35 anni e 8 mesi di contribuzione).
Opzione lavoratici dipendenti
Con la nuova normativa previdenziale rimane in vigore
l’art. 1 comma 9 della L. n. 243/2004 che, in via sperimentale fino al
31.12.2015, dà la possibilità di conseguire il diritto a pensione di anzianità
alle lavoratrici dipendenti con 35 anni di contribuzione e 57 anni di età, solo
a seguito di opzione per la liquidazione del trattamento pensionistico mediante
il sistema di calcolo contributivo a condizione che la decorrenza del
trattamento pensionistico si collochi entro il 31.12.2015. Nei confronti di
queste lavoratrici, continua a trovare applicazione la disciplina delle
decorrenze (c.d. finestre) e trovano applicazione le disposizioni in materia di
adeguamento alla speranza di vita.
Pertanto, il requisito anagrafico (57 anni) dal 1°
gennaio 2013 sarà incrementato di tre mesi, 57 anni + 3 mesi (circolare INPS,
Direzione Generale – n. 37 del 14.03.2012).
Inoltre, il comma 7 dell’art. 24 della legge n. 214/2011
fa salva la facoltà dei lavoratori che possono far valere al 31.12.1995
un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni, di optare per la liquidazione
del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema di
calcolo contributivo, a condizione che, al momento dell’opzione, abbiano
maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 15 anni di cui almeno 5
nel sistema medesimo. Nel contempo, però, stabilisce che i requisiti di accesso
alla pensione di vecchiaia e alla pensione anticipata non sono quelli previsti
nel regime contributivo, bensì quelli introdotti dal medesimo art. 24 e
previsti per i lavoratori con anzianità contributiva al 31.12.1995,
precedentemente illustrati.
Al momento la decorrenza del trattamento pensionistico
aveva come data ultima per poter accedere all’opzione donna, quella del 31
dicembre 2015. Con le novità introdotte dall’ultima legge di stabilità si
dovrebbe fare in modo che la data del 31 dicembre 2015 sia fissata per il raggiungimento
dei requisiti e non per la decorrenza del trattamento. “Una interpretazione
restrittiva dell’INPS fissava al 31 dicembre 2015 la decorrenza del
trattamento pensionistico invece della maturazione del requisito. E’ da tempo
che stiamo aspettando questa correzione che dovrebbe essere pacifica e
condivisa”.
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