Oggi la Fondazione Agnelli ha
parlato di un fenomeno “estremamente grave e preoccupante per il nostro Paese che
resta 7 punti sopra l’obiettivo europeo del 10%”, ricordando che quello degli
esiti dei Cfp “è un punto decisamente problematico”.
Marcello Pacifico
(Anief-Confedir): la nostra ‘ricetta’ per allinearci ai Paesi moderni, ma anche
a molti dell’Est, dove lascia la scuola prima del tempo solo il 5% di studenti,
è quella di elevare l’obbligo scolastico a 18 anni, potenziare le esperienze di
stage, come già previsto dal Governo, e riportare il tempo scuola, assieme al
numero di posti, sui livelli precedenti alla riforma Tremonti-Gelmini del 2008.
Ciò migliorerebbe la didattica, tratterrebbe gli alunni e aprirebbe le porte a
decine di migliaia di docenti precari abilitati al momento senza prospettive di
stabilizzazione.
Il numero di alunni che lascia la scuola avendo solo conseguito la licenza
media rimane altissimo: se l’Unione Europea chiede di portare al 10%, entro il
2020, il tasso di abbandono dei banchi, riferendosi a quei giovani fra i 18 e i
24 anni che si sono fermati al titolo di terza media, l’Italia rimane ferma al 17,6%.
E alle superiori negli ultimi 15 anni il 31,9% degli studenti non hanno
conseguito il diploma di maturità. Oggi
la Fondazione Agnelli ha ricordato che “qualsiasi riflessione su come
prevenire e contrastare la dispersione scolastica deve comunque partire da
questo dato, che è la spia di un fenomeno in ogni caso estremamente grave e
preoccupante per il nostro Paese e – nonostante i miglioramenti degli ultimi
anni - resta 7 punti sopra l’obiettivo europeo del 10% e anche sopra
l’obiettivo redeclinato per l’Italia al 15%”.
Sempre secondo la Fondazione Agnelli “la comprensione e la stima del
fenomeno della dispersione scolastica in Italia non possono prescindere dalla
considerazione degli esiti dei percorsi di formazione professionale regionale e
questo è un punto decisamente problematico”. La stampa specializzata ha
calcolato che se si considerano gli studenti che non lasciano i banchi “a tutti
gli effetti, ma nemmeno poi raggiungono la maturità, poiché convogliati nei
Cfp, il computo nazionale del 17,6%, già ben oltre la soglia indicata dall’Ue, andrebbe
incrementato di altri 10 punti percentuali”.
Anief ricorda che in alcuni Paesi dell’Est, come Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia dove i livelli di vita non sono
paragonabili all’Italia, i livelli di abbandono scolastico si attestano attorno
al 5%. Sono numeri che parlano da soli e che indicano come la politica del
ridurre il tempo scuola abbia portato solo risultati negativi, ora anche in
termini di mantenimento dei nostri giovani sui banchi di scuola.
Il giovane sindacato ritiene che non si possa più temporeggiare: “il nostro
Paese non può più permettersi di perdere per strada 2 milioni e 900mila giovani
delle superiori, come è accaduto negli ultimi tre lustri. Anche perché si
tratta di ragazzi tra i 16 e i 19 anni quasi sempre destinati ad allargare il
numero dei Neet, l’esercito sempre più ampio di giovani che non studia e non
lavora”, ha detto Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario
organizzativo Confedir.
Anche perché nei territori più poveri a livello di tessuto sociale, di
strutture e opportunità occupazionali, i giovani Neet diventano non di rado potenziali
nuove leve al servizio della criminalità organizzata. Il sindacato rilancia
quindi le azioni da intraprendere per fermare questa emorragia di giovani dalle
scuole prima del conseguimento di un titolo di studio adeguato ad affrontare il
mondo lavorativo.
La prima modifica da attuare è portare l’obbligo formativo a 18 anni, come saggiamente
tentò di fare nel 1999 l’allora Ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Occorrono, certamente, anche
fondi ulteriori, nazionali e europei, finalizzati a migliorare l’orientamento
scolastico dei nostri alunni alle prese con la scelta del corso superiore.
Servono poi quote di organico di personale maggiorate da destinare proprio
nelle aree dove la percentuale di alunni dispersi è più alta. Il contrario,
tanto per capirci, di quello che è accaduto quest’anno, con
il Miur che ha sottratto docenti alle regioni del Sud, a partire dalla Sicilia,
che detiene punte provinciale di abbandono superiori al 40%, continuando ad
associare gli organici esclusivamente al numero degli iscritti; continuando
incredibilmente ad ignorare le condizioni del territorio e al grado di
difficoltà di apprendimento. La speranza è che il potenziamento delle attività
di alternanza scuola lavoro, finanziato anche attraverso l’ultima Legge di
Stabilità, possa servire come primo argine del fenomeno.
Per tornare a coinvolgere gli studenti a scuola
serve però anche riportare il tempo scuola sui livelli precedenti alla riforma
Tremonti-Gelmini del 2008. “Fino a sei anni fa – ricorda Pacifico – l’Italia
deteneva dei livelli scolatici ambiti da tutto il mondo. Tagliando centinaia di
ore di offerta formativa l’anno, 4mila scuole e 200mila unità di personale, tra
docenti e Ata, con riflessi negativi su tutto il comparto e falcidiando i
precari. Con il risultato di ridurre la qualità formativa, improvvisamente
composta da un numero ore tra i più bassi dell’area Ocse”.
Il tempo scuola degli alunni, in particolare, si
è ridotto al punto di farci ritrovare in fondo alla classifica internazionale:
facendo sparire, con la Legge 133/08, più di un sesto dell’orario scolastico,
oggi l’Italia detiene il triste primato negativo di 4.455 ore studio
complessive nell’istruzione primaria, rispetto alla media di 4.717 dell’area
Ocse: non solo, alle ex elementari è subentrato anche il maestro “prevalente”
che svolge 22 ore, con il resto dell’orario assegnato anche ad altri 4-5
colleghi. Come quello d’inglese, che però non è più specializzato. Così si è
arrivati a produrre l’attuale modello formativo, di qualità più bassa, perché
l’offerta formativa non ha più una struttura propria. E lo stesso vale per la
scuola superiore di primo grado, visto che i nostri ragazzi passano sui banchi
2.970 ore, contro le 3.034 dei Paesi Ocse,
“Ripristinare il numero di ore del 1998 –
conclude Pacifico – comporterebbe anche la possibilità di ripristinare gli
organici di sei anni fa. Comportando, in tal modo, la creazione delle cattedre
utili ad assumere non solo i 150mila docenti precari previsti dalla Buona
Scuola attraverso sempre i fondi stanziati con i commi 3 e 4 della Legge di
Stabilità 2015, ma anche le tante decine di migliaia di precari abilitati, ma
fuori delle GaE, che lo Stato continua ad utilizzare per le supplenze ma poi a
considerare invisibili quando si tratta di affrontare il problema della loro
stabilizzazione”.
Per approfondimenti:
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