Invece di provvedere a stabilizzare decine di migliaia di
ricercatori e docenti, da anni, se non decenni, impegnati quotidianamente a
condurre la didattica e la ricerca nelle nostre università, da Viale
Trastevere, quindi, è arrivata l’idea “geniale”: salvare i corsi di laurea a
rischio allargando il numero di professori a contratto: si istituzionalizzano
così sempre più rapporti annuali a contratto, spesso in cambio di un mero
rimborso spese, ad insegnanti esperti e cultori delle varie materie. Superando,
nemmeno di poco, l’originario limite legislativo del 5%. Anche la Legge di
Stabilità ha dato il suo contributo negativo. Per non parlare della nuova
ripartizione del fondo ordinario degli atenei. È la conferma che oggi in Italia
chi ha i titoli e la voglia di insegnare e fare ricerca all’università ha le
ali tarpate.
Marcello Pacifico (Anief-Confedir): il continuo ricorso alla
contrattazione privatistica per assicurare la costante erogazione dell’attività
didattica, sta mettendo a serio rischio l’intera sopravvivenza del servizio
nazionale universitario. Il tutto, calpestando la Carta europea dei
ricercatori. Non è un caso se vi
sono sempre meno iscritti, troppi studenti fuori corso e un numero altissimo di
cultori, assegnisti, dottori di ricerca, ricercatori, verso l’estinzione, e
quasi-docenti in perenne attesa di fare il “salto” negli organici accademici. Ma
contro tutto ciò abbiamo deciso di dire basta: se necessario ricorreremo fino
alla Curia europea.
Un altro colpo basso alla qualità dell’insegnamento negli atenei italiani.
A darlo è ancora una volta il Miur, che messo alle strette dal rischio di
chiusura di centinaia di corsi di laurea, ha pensato bene di varare un decreto
ad hoc, appena firmato dal ministro dell'Istruzione, Stefania
Giannini, attraverso cui si prevede che anche i professori a contratto possano
rientrare nel calcolo numerico minimo di docenti utile a mantenere in vita un
corso universitario.
"A rischio –
riporta la
stampa nazionale - c'erano centinaia di corsi di laurea, tenuti anche da
esperti di fama, studio, professionisti, che avevano un'unica «pecca»: quella
di essere assunti con contratto a tempo determinato”. Invece di provvedere a
stabilizzare decine di migliaia di ricercatori e docenti, da anni, a volte
decenni, impegnati quotidianamente a condurre la didattica e la ricerca nelle
nostre università, da Viale Trastevere, quindi, è arrivata l’idea “geniale”:
salvare i corsi di laurea a rischio allargando il numero di professori a contratto.
“Oggi il numero
minimo di docenti necessari è 9 per i corsi di primo livello e 6 per quelli di
secondo. Il decreto non varia questo numero, ma prevede che fino a
un terzo di questi posti possa essere assegnato - sia nelle università statali
che in quelle non statali - a professori a contratto o a professori
straordinari a tempo. Fra i 5 e i 6 docenti sul totale di quelli
minimi previsti potranno essere a tempo anche nei corsi di laurea magistrale a
ciclo unico di durata, rispettivamente, di 5 o 6 anni. Una piccola variazione
che – sottolinea il Corriere della Sera - però salvaguarda gli studenti di
tutti quegli atenei che, fino al 2018, non potranno assumere a tempo
indeterminato, avvalendosi del turn-over”.
E qui sta il punto: oggi in Italia chi ha i titoli e la
voglia di insegnare e fare ricerca all’università ha le ali tarpate. Basta andare a ricordare quanto accaduto con la messa ad esaurimento del
ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato: invece di realizzare una sintesi
delle leggi approvate negli ultimi anni (L. 210/1998, L. 230/2005, D.lgs.
164/2006, L. 1/2009), attraverso il riconoscimento di una nuova fascia della
docenza relativa alla categoria dei ricercatori, si è deciso di cancellarne l’esistenza,
attraverso la loro messa a esaurimento oppure di precarizzarne il ruolo, con la
stipula di soli contratti a tempo determinato.
Quando tutto sembrava far pensare alla
soluzione del “caso”, attraverso la Legge n. 1/2010, che avrebbe dovuto bandire
5mila posti per il primo gradino della ricerca, di lì a poco è infatti arrivata
la Legge 240/2010: un provvedimento che, di fatto, ha sancito la
precarizzazione del personale dell’Università, cancellando la figura del
ricercatore a tempo indeterminato dopo la sua messa ad esaurimento, in un
momento in cui ancora non erano stati nemmeno assunti tutti gli idonei a posto
di associato e ordinario a seguito dell’espletamento dei primi concorsi dopo la
riforma.
“La Legge 240 del 2010 – ricorda Marcello Pacifico,
presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – ha avuto un molteplice
valenza negativa, perché approvata anche in un momento di esigenza di forte
ricambio del turn over, derivante a sua volta dai provvedimenti limitativi
della fascia di età di permanenza in servizio dei professori universitari (70
anni), di risanamento finanziario dei debiti contratti dagli Atenei e di
continua riduzione delle risorse erogate agli Atenei dall’Amministrazione
centrale dello Stato”.
Per i corsi delle
università, privati progressivamente di ricercatori e docenti associati e
ordinari, la ciambella di salvataggio non poteva che essere quella di
realizzare rapporti annuali a contratto, spesso in cambio di un mero rimborso
spese, ad insegnanti esperti e cultori delle varie materie. Superando, nemmeno
di poco, l’originario limite legislativo del 5% di questo genere di
rapporti. Ora, il Miur istituzionalizza questa pratica. Che anziché l’eccezione
diventa la prassi.
“Con il risultato –
continua Pacifico - che il continuo ricorso alla contrattazione
privatistica per assicurare la costante erogazione dell’attività
didattica, sta mettendo a serio rischio l’intera sopravvivenza del
servizio nazionale universitario. Il tutto, calpestando la Carta europea
dei ricercatori, oltre che la Raccomandazione della Commissione
delle Comunità europee n. 251 dell’11 marzo 2005, riguardante la carta europea dei Ricercatori, e il Codice di condotta per l’assunzione dei Ricercatori. Come richiamato, peraltro, dall’articolo 18, chiamata dei professori, e dall’articolo 24, ricercatori a tempo
determinato, della stessa legge 240/2010”.
Purtroppo, anche
l’attuale Governo ha dato il suo contributo al decadimento delle risorse a
favore dell’Università: con
la Legge di Stabilità 2015, sono stati introdotti nuovi tagli al fondo di
funzionamento ordinario dell’Università pubblica, pari a 98 milioni in tre anni
a partire dal 2016. Così come è stata approvata la riduzione di 140 milioni per gli
FSRA, di 42 milioni agli enti di ricerca e di 1 milione all’Afam, l’Alta
Formazione Artistica e Musicale che invece avrebbe estremo bisogno di un
rilancio.
Inoltre, a fine
2014, il titolare del Miur, Stefania Giannini, ha firmato e pubblicato il decreto
con il nuovo riparto del Fondo di finanziamento ordinario alle università
statali e sul “costo standard” di formazione per studente in corso. Si
tratta di un sistema inedito, che punta ad agganciare lo stanziamento delle
risorse non più a criteri storici, ma alla qualità e alla tipologia dei servizi
offerti agli studenti. Al di là delle rassicurazioni di Viale Trastevere, sarà
inevitabile che ad essere penalizzati da questa nuova distribuzione di circa il
20% delle risorse saranno gli atenei (e gli studenti) collocati nei contesti
più svantaggiati, ad iniziare da quelli del Sud. Con un ulteriore inevitabile
aumento degli abbandoni.
“Il risultato di
questo politica – conclude Pacifico - è sotto gli occhi di tutti: “sempre
meno iscritti, troppi studenti fuori corso e un numero altissimo di
cultori, assegnisti, dottori di ricerca, ricercatori, verso l’estinzione, e sempre
più quasi-docenti in perenne attesa di fare il “salto” negli organici
accademici. A ciò si aggiunga che in
Italia non si investe adeguatamente per l’Università. E nemmeno si fa un
orientamento adeguato: l’ultima legge, in merito, introdotta dall’ex ministro
Maria Chiara Corrozza, è fallita clamorosamente. A rendere ancora più
complicata la situazione è stato anche l’inasprimento delle tasse d’iscrizione,
richieste dagli atenei agli studenti fuori corso, aumentate di cifre che vanno
dal 25% al 100%”.
Per quanto
riguarda la mancata stabilizzazione del personale, però, Anief ha deciso di
passare al contrattacco. Tutti i ricercatori e i docenti che hanno svolto
attività in seno alle università per oltre tre anni, anche non continuativi,
hanno diritto alla stabilizzazione: per i primi, i ricercatori, va infatti
ripristinata la figura e prevista la messa in ruolo; per i secondi, coloro
hanno fatto didattica, deve essere allo stesso modo prevista una norma che li
vada ad inquadrare nella copertura dei corrispettivi insegnamenti di laurea
come professore associato. Anief ha deciso di combattere lo stato di
“congelamento” perenne, cui sono stati destinati dagli ultimi Governo decine di
migliaia di giovani meritevoli: la giovane organizzazione sindacale ricorrerà
in tutte le sede, fino alla Corte di Giustizia europea se necessario. Coloro
che sono interessati a ricevere ulteriori informazioni possono scrivere a universita@anief.net.
Per approfondimenti:
Nessun commento:
Posta un commento